
Il bambino che disegnava parole di Francesca Magni, una lettura che fa viaggiare con la mente e con il cuore.
C’è un’età in cui tutto cambia. E non parliamo solo di voci che si abbassano o di brufoli che spuntano come ninja notturni. Parliamo di quella soglia invisibile, quel passaggio sottile come carta velina che separa l’infanzia dalla consapevolezza. Teo ci cammina sopra con l’animo brillante e la mente affilata, finché non inciampa. E cade.
Il romanzo di Francesca Magni, Il bambino che disegnava parole, è il diario di bordo di una famiglia che si ritrova improvvisamente in mare aperto, senza bussola. Teo, il figlio prodigio, smette di brillare. L’ingranaggio si blocca. La scuola, da alleata, diventa un campo minato. E la diagnosi arriva come un fulmine che illumina il buio: dislessia.
Ma attenzione: questo non è un libro “sulla dislessia”. È un libro sulla luce che filtra dalle crepe. Sulle menti che pensano in diagonale. Sulle parole che si disegnano, invece di scriversi. È un’ode alle neurodivergenze che rompono gli schemi solo per costruirne di nuovi.
Leggendo, ci si accorge che la dislessia non è il punto focale del libro, ma la scoperta. La scoperta di un altro modo di apprendere, di sentire, di essere. L’autrice ci accompagna con la voce di una madre che inciampa, si rialza, impara.
Questo libro non offre soluzioni magiche, ma mappe, percorsi, riflessioni. È uno specchio per famiglie, insegnanti ed educatori che pensano che la scuola possa cambiare, e anche per quei ragazzi che si sentono diversi — e che forse lo sono davvero, ma nel modo più prezioso possibile.
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